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Stretta sul mobbing

STRETTA SUL MOBBING

Stretta sul mobbing. Le testimonianze dei colleghi possono inchiodare il capo che, con le sue intemperanze, stressa a tal punto il dipendente da fargli venire la depressione e l’ansia, e che per questo rischia, oltre al carcere, di dover risarcire il sottoposto.

Lo ha stabilito la Cassazione che, con la sentenza n. 23923 del 10 giugno 2009, ha condannato definitivamente un dirigente di un ufficio giudiziario della Liguria a risarcire gli stati ansiosi e depressivi provocati dal suo comportamento aggressivo nei confronti di una cancelliera. I reati di cui era stato inizialmente accusato, fra cui le lesioni colpose, si sono invece prescritti.

Il mobbing, la parola più inflazionata negli uffici italiani, ha trovato, in attesa di una legge, una tutela sul piano civilistico e su quello penalistico nei principi generali del nostro ordinamento: anche se non esiste un reato chiamato mobbing gli atteggiamenti prevaricatori tipici di questa fattispecie possono essere puniti con altri reati come le lesioni o addirittura i maltrattamenti in famiglia. Ma c’è sempre un problema: il mobbing è difficilissimo da provare. Questo caso giudiziario spiana però la strada per una dimostrazione delle prevaricazioni in ufficio che sia meno impossibile. I colleghi della signora ligure che si sentiva mobbizzata dal capo sono stati ascoltati dai magistrati di merito e la decisione è stata condivisa dalla Cassazione. In particolare, si legge in sentenza, “la decisione impugnata ha dato atto che i numerosi testimoni sono stati concordi e non contraddittori nel ricostruire le modalità dell’ingiuria e la dinamica della stessa e ha anche sottolineato che non è stata fornita alcuna prova di uno spaventevole complotto ordito ai danni dell’imputato, per cui tutti gli impiegati della pretura avessero deciso di costruire sulla personalità fragile della lavoratrice un castello di menzogne”.

Anche per questo motivo la quarta sezione penale ha respinto il ricorso del capo contro la condanna emessa della Corte di appello di Genova. Al dirigente è stato contestato di aver offeso l’onore e il decoro dell’impiegata, pronunciando contro di lei espressioni come “è una falsa, non finisce qui, gliela farò pagare, è un’irresponsabile”.
Durante il processo i colleghi di lavoro avevano testimoniato che il dirigente aveva un “atteggiamento quotidiano violento, aggressivo, alimentato da intemperanze, gesti di violenza e prevaricazione”.

Questi comportamenti avevano provocato nella donna “uno stato ansioso depressivo, con tachicardia in stress emotivo”, malattia che valse alla donna circa 20 giorni di riposo. Ad avviso dei giudici della Cassazione non c’è dubbio che si tratta di mobbing e al dirigente prepotente spiegano che la sua colpa consiste nel fatto di non aver azionato i “conseguenti poteri inibitori” per tenere a bada le sue intemperanze, una precauzione che ogni “uomo medio, dotato di comuni poteri percettivi e valutativi avrebbe dovuto fare per evitare le conseguenze dannose”.

DOTT.SSA MONICA MELANI