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Niente mobbing in azienda

Niente mobbing in azienda

NIENTE MOBBING IN AZIENDA

Nelle grandi aziende tramonta ogni chance di ottenere una condanna penale per mobbing. Infatti il dipendente emarginato, da capi e colleghi, in mancanza di una specifica normativa, non può praticare la via penale e vedere condannati i suoi aguzzini per maltrattamenti.
Due anni fa si era detto, il mobbing non è reato ma ora la Cassazione, con la sentenza n. 26594, deposita una decisione ancora più perentoria, confermando l’assoluzione dal reato di maltrattamenti nei confronti di un capoufficio che tormentava una dipendente.
In alcuni punti la nuova sentenza sul mobbing segna addirittura un dietrofront con una giurisprudenza che sembrava ormai aver accolto all’unanimità altre figure di reato, come i maltrattamenti in famiglia, per sopperire al vuoto legislativo ancora esistente in Italia sul mobbing.
Nella sentenza n. 33624 del 2007, passata alla storia come la prima ad aver decretato che il mobbing non è una fattispecie prevista dal nostro codice penale, si lasciava comunque una chance per ottenere una condanna per maltrattamenti in famiglia, in caso di reiterazione di una pluralità di atteggiamenti anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità nel soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di modificare e di isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro. Non solo. Affinché questa condotta abbia effetti penali, aveva poi chiarito la Suprema corte, la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il mobbing è quella descritta dall’articolo 572 del codice penale “maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione” che devono compiersi in modo continuativo. E infatti in quel caso il Preside era stato assolto solo perché era mancata la prova della continuità delle vessazioni.
Ora invece la Cassazione nega la possibilità persino di una condanna per maltrattamenti, almeno nelle grandi aziende. Insomma per strappare al giudice una decisione sulla responsabilità penale di chi mobbizza bisogna che le vessazioni siano avvenute in un lavoro, “come avviene in quello domestico” o come avviene “fra apprendista e artigiano” il cui ambiente sia tanto piccolo da essere familiare: “è soltanto nel limitato contesto di una peculiare rapporto parafamiliare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti”.
Insomma, “sulla base del diritto positivo – si legge in sentenza – la via penale non appare percorribile”. Resta pur sempre il rimedio, e su questo punto tutti i collegi di legittimità sembrano essere d’accordo, dell’azione civile e quindi del risarcimento del danno.
Le motivazioni sono importanti anche per un’altra ragione: contengono infatti un chiaro monito al legislatore, “nel nostro codice penale”, si legge in sentenza, “nonostante una delibera del Consiglio d’Europa del 2000, che vincolava tutti gli stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente, non v’è traccia di una specifica figura incriminatrice per contestare tale pratica persecutoria”.
Ora alla signora non resta che chiedere i danni per le vessazioni del suo direttore. Infatti la sesta sezione penale ha respinto il ricorso della Procura che chiedeva di annullare l’assoluzione del dirigente e di condannarlo per maltrattamenti.

DOTT.SSA MONICA MELANI

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